Arquà Polesine, Veneto –  Un’ indagine lunga e piuttosto complicata, condotta da Lara Girotti per redigere la propria tesi di laurea ha portato alla luce una pagina di storia che sembrava perduta per sempre: quella sugli ultimi rappresentanti della famiglia Diedo, del ramo dei Santi Apostoli,  proprietaria del castello di Arquà Polesine.
Punto di partenza: gli  affreschi della millenaria dimora, per individuare esecutori e committenti. 
 Il lavoro, minuzioso e particolareggiato, raccolto in un volume che, si spera, possa essere pubblicato e diffuso tra gli studiosi di storia locale, è stata presentata venerdì 24 marzo, 2017, nella Sala Consiliare del Castello, gremita di amici e conoscenti della giovane arquatese. Ad affiancarla, il direttore dell’Archivio di Satato di Rovigo, Luigi Contegiacomo, a cui Lara si era rivolta per una prima ricerca sulle fonti notarili. Un impegno che non ha dato grandi risultati per mancanza di riferimenti a committenze pittoriche o a persone che avessero operato per la trasformazione del castello da struttura difensiva a villa signorile di rappresentanza per i proprietari.
   “Lara non si è arresa – ha raccontato Contegiacomo – ha imparato a riconoscere la calligrafia dei diversi notai, i cui atti, dal 1400 al 1800, sono raccolti in 164 volumi. Tuttavia, ricostruendo la mappa delle proprietà dei Diedo, sono emersi dati sulla trasformazione della dimora da luogo di difesa in villa e, in seguito, centro di produzione e stoccaggio di prodotti agricoli. Nel medioevo, la proprietà era di una famiglia di origine ferrarese; le vicende storiche che hanno portato il Polesine e la città di  Rovigo, alternativamente sotto il dominio estense e veneziano hanno determinato il passaggio del territorio di Arquà sotto la Repubblica di Venezia e la nobile famiglia Diedo spostata in terraferma.
 Il resto delle ricerche si è svolto nell’ Archivio di Stato di Venezia, dove sono risultate fondamentali le dichiarazioni di decima e gli alberi genealogici dei discendenti della famiglia ” – ha aggiunto Contegiacomo.
     Inserendosi nel contesto storico, Lara ha precisato che: “A partire dal ‘300 la casata  si era divisa in  4 rami e quello dei Santi Apostoli, il meno importante, si era insediato in Polesine, ad Arquà. Dei tre fratelli: Pietro, Francesco e Vincenzo, l’ultimo, Vincenzo, nel 1566 divenne Patriarca di Venezia, allacciò importanti relazioni con lo Stato Pontificio e diede il via alla ristrutturazione del castello. Più interessato al potere temporale che al ruolo di guida religiosa, Vincenzo incrementò i possedimenti in Polesine con lasciti e investiture ecclesiastiche. Fu accusato di appropriazione indebita di beni della Repubblica e altri reati. Il legame con il papato e la religione cattolica traspare in molte delle pitture che arricchiscono il castello, ora villa, di Arquà. Vennero, inoltre, incrementati e migliorati i sistemi di sfruttamento delle terre in Polesine.
     Dei tre fratelli sopra citati, l’unico ad avere discendenti fu Francesco, sposato con una nobile Bembo. Ebbe 4 figli. Uno di loro,  Alvise, ereditò la maggior parte dei beni, come si evince dalla dichiarazione di decima del 1546. Sempre Alvise, condusse una vera e propria campagna acquisti di terreni in Polesine dal Provveditore di Venezia: a Castelguglielmo, Adria, Loreo. Altre proprietà insistevano nei territori di Verona, Padova, Vicenza. Numerosi i Palazzi a Venezia, fra cui Cà da Mula, nell’isola di Murano.
   Nel 1540 i Diedo avevano acquistato il ‘castrum Arquatae’. La dichiarazione di decima del 1582 riporta il cambiamento d’uso e costituzione del castello, diventato dimora di lusso; la costruzione delle barchesse per il ricovero del fieno e del grano. L’imparentamento con la famiglia Correr è testimoniato dall’ aggiunta dello stemma dei Correr accanto a quello dei Bembo.
   Dalla fine del 1500  al 1630 il patrimonio dei Diedo ha continuato a espandersi. Gli affreschi risalgono a questo periodo.
 Le indagini sulle proprietà mi hanno permesso di individuare le  fasi di trasformazione del castello  – ha specificato Lara – e la decisione di affrescare alcune stanze della villa è frutto della politica patrimoniale di investimento basata sulla contrazione di matrimoni dei figli maschi con ragazze di nobile casato. Le pitture simboleggiavano e celebravano il prestigio dei Diedo, da esibire agli  ospiti illustri.
Giungendo al cuore della ricerca Lara Girotti ha spiegato che il ciclo pittorico di Arquà riguarda 2 stanze al piano nobile e 3 al piano terra; nessun riferimento specifico alla committenza è stato possibile. “Molti i confronti fatti con altri cicli pittorici di villa e le comparazioni tra le committenze di affreschi a Venezia e le pitture di Arquà” – ha dichiarato. “Diverse le ipotesi di influenza di opere di Paolo Veronese, attivo in terraferma, mentre per la datazione degli affreschi di Arquà ci si basa su quella degli affreschi ripresi da cartoni, disegni e stampe che circolavano nelle botteghe degli artisti dell’epoca, dove lavoravano maestranze diverse. Le pitture del piano superiore sono di qualità
scarsa; migliori quelle del piano terra. I soggetti sono, in genere, collegati alla vita dei proprietari e avevano intento celebrativo. Frequente la presenza di festoni, nature morte, simboli del potere di Venezia, riferimenti alla chiesa cattolica e alla monarchia francese. Nel salone della torre compaiono  riferimenti a personaggi biblici, poco leggibili.
 Al pianterreno, accanto a  personaggi della Bibbia ci sono scene tratte dalle ‘Metamorfosi’ di Ovidio, il mito di Fetonte e frequenti riprese   dei cartoni di Galtzius, datate 1589. La stanza del camino è la più bella e complessa dal punto di vista simbolico e decorativo: si vedono  figure di sapienti e filosofi che sorreggono tavole con iscrizioni. Sul soffitto le arti liberali e l’allegoria della Sapienza; ultima scena: il banchetto di Antonio e Cleopatra”.
   A trarre le conclusioni di un lavoro tanto impegnativo e determinante per la storia del nostro territorio, Sergio Garbato, con gli auspici che venga diffuso  e offra spunti  per andare oltre.
   Meritano una sottolineatura gli intermezzi musicali all’arpa celtica di Paola Magosso,raffinata rievocazione dell’atmosfera delle corti rinascimentali.
Lauretta Vignaga