……Dal sito di Campestrin, una ciotola con corna di cervo di 3.000 anni fa

la trincea scavata a Campestrin
la trincea scavata a Campestrin

Rovigo, Veneto – Un paio di mesi fa, commentando il successo del ‘Maggio rodigino’, siamo intervenuti sulla rivista Ventaglio90.it  Focus web sottolineando che Rovigo aveva sì guadagnato una certa visibilità con le manifestazioni proposte ma si trattava di manifestazioni ‘importate’, che non davano risalto alle ‘nostre’ ricchezze, in particolare al  Museo dei Grandi Fiumi, che, dopo le poche, frequentatissime edizioni di ‘Con le mani nella storia’ è ripiombato nell’oblio. Nessuna iniziativa per convogliare i rodigini e i polesani nelle sue sale e conoscere il passato millenario di questa terra, testimoniato dal patrimonio di reperti che vi sono custoditi. In particolare, la sezione dell’età del Bronzo che custodisce le tracce molto consistenti di una ‘Via dell’Ambra’, la preziosa resina fossile che, dai giacimenti delle coste del mar Baltico, arrivava fino a Grignano Polesine, in località Campestrin, per essere lavorata.

   In quella località, infatti, le campagne di scavi archeologici del 2008 e 2009 e, in particolare, la ricerca ripresa il 13 settembre 2010 e conclusa il 12 ottobre seguente, hanno accertato la presenza, in epoca protostorica, di un’area specializzata nella lavorazione dell’ambra da parte di artigiani dell’età del Bronzo.  Svuotando le canalette per lo scolo dell’acqua, di cui si servivano, sono state rinvenute molte perle in ambra oltre a tantissimi frammenti di ceramica decorata, palchi di cervo lavorati (le corna dell’animale con le loro ramificazioni), manufatti in bronzo.
In particolare l’apertura di una trincea lunga 26 metri, in corrispondenza di un antico fossato, evidenziato durante gli scavi, ha messo in luce altre probabili postazioni di una zona artigianale molto articolata lungo l’antico ‘Po di Adria’ che rafforza l’ipotesi dell’esistenza di un esteso villaggio di capanne che accoglieva gli abitanti dell’antica Campestrin. L’ambra, trasformata in perle e monili, era, quindi, venduta lungo tutto il bacino del Mediterraneo o, invertendo il percorso,
 ritornava verso nord da dov’era partita.
 Durante l’ultimo scavo è stato anche ritrovato un oggetto del tutto insolito e unico nel suo genere: una ciotola di ceramica incorniciata da un pezzo di palco di cervo (le corna con le ramificazioni), ora conservata in una teca al Museo dei Grandi Fiumi. Un esemplare unico nella nostra regione, a quanto sembra, mentre oggetti simili  sono stati ritrovati   in antichissimi luoghi di sepoltura  dell’area baltica.
frammenti d'ambra ritrovati a Campestrin
frammenti d’ambra ritrovati a Campestrin

La mancanza di qualsiasi collegamento tra quell’oggetto e gli altri reperti portati alla luce a Campestrin, indusse il gruppo di ricercatori e archeologi impegnati  negli scavi e, poi nella identificazione e classificazione dei materiali da conservare  nel Museo dei Grandi Fiumi, a immaginare una storia, non vera ma verosimile, su quella ciotola incorniciata da corna di cervo. Stampata in un libretto, ricco di illustrazioni, la riportiamo qui sotto come un affresco tracciato all’alba della storia dell’uomo. A completarlo è la stessa ciotola, testimone e custode di un capitolo di storia di 3.000 anni fa. Si intitola:....

    ‘…….e alla fine sono rinata…….’
Poco prima dell’alba, un gruppo di cacciatori si muove silenzioso, confondendosi con le ombre della foresta e con la bruma che sale dalla vegetazione palustre che, rigogliosa, cresce tra gli acquitrini e il grande, placido, maestoso fiume.  Conoscono ogni albero, ogni cespuglio, ogni anfratto; conoscono il linguaggio della natura.
   Sono sulle tracce di un cervo con un palco gibantesco: è il padrone assoluto di quel lembo di terra. Le foglie degli alberi si stanno arrossando  ai primi freddi, la natura si sta preparando ai rigori dell’inverno che arriva. All’improvviso, un bramito echeggia tra gli alberi: il vecchio maschio reclama il possesso delle femmine e del territorio. Il silenzio che segue alla possente sfida, viene subito interrotto dalla risposta sonora di un giovane cervo maschio nel pieno della sua prestanza ed esuberanza fisica.
 E’ venuto dalle fitte boscaglie  boscaglie che coprono i colli  Euganei e raccoglie la sfida del vecchio signore dell’ harem.
  In una piccola radura, illuminata dai primi raggi di un pallido sole, i due maschi si sfidano sotto gli occhi apparentemente indifferenti delle cerve. Ma altri occhi guardano quello che accade: i quattro cacciatori aspettano in silenzio l’epilogo della sfida. Sono pratici, opportunisti, colpiranno il cervo che sarà sconfitto, sarà più debole, forse ferito, una preda più facile.
Si stanno scambiando occhiate e segni quando colpi secchi e potenti attirano la loro attenzione. I due maschi hanno iniziato la lotta che porterà al vincitore la possibilità di riprodursi e di diventare, in qualche modo, immortale.
I colpi sono furiosi, assordanti, convulsi; l’eco rimbalza su ogni albero, cespuglio, su ogni foglia della foresta lasciandola indifferente. Poi, all’improvviso com’era iniziato, torna il silenzio.
Il più giovane dei quattro cacciatori incocca la freccia di canna con una cuspide fatta da lui stesso, in selce e legata con tendini; tende la corda di budello del suo arco di nocciolo; è impaziente di colpire il cervo, di far sapere agli altri del suo valore, della sua abilità di cacciatore. Inizia a inseguire il vecchio signore del bosco, come un bambino insegue un aquilone, dimenticando tutto quello che suo padre e gli altri cacciatori gli hanno insegnato: il silenzio, l’invisibilità, l’attenzione, l’istinto del predatore. Corre, salta, inciampa, si rialza, riprende il vano inseguimento. Ha creato scompiglio, confusione, agitazione, terrore tra gli animali della foresta. Ma ha anche destato l’attenzione di un altro predatore, non fornito di arco e frecce ma di zanne e artigli: un poderoso orso bruno intento a saccheggiare un alveare ricco di miele dentro un albero
cavo.
   Il ragazzo, vedendo il cervo sparire alla vista tra la fitta vegetazione, scocca l’unica freccia che, sibilando, finisce il suo volo conficcandosi in un canneto. Ora il giovane è disarmato, ha sprecato la freccia, è ricoperto di sudore e di sangue uscito da piccoli graffi provocati dai cespugli durante il folle inseguimento. L’orso sente l’odore del sangue; l’istinto gli dice che deve mangiare più che può per poter affrontare adeguatamente il lungo letargo invernale. I piccolo occhi neri, inespressivi,
puntano la preda. Scatta immediatamente come una molla: in un attimo quattro quintali di muscoli sono sull’ignara vittima; il ragazzo ha solo il tempo di lanciare un urlo di terrore: una poderosa zampata gli squarcia la gola. L’urlo di morte arriva veloce alle orecchie dei compagni che intuiscono subito quello che può essere accaduto. Corrono a perdifiato, arrivano in un lampo e, di fronte a loro, si presenta una scena antica e terribile: il predatore sta per divorare la preda.
   I tre cacciatori scagliano con precisione tre frecce; le punte in selce affilata e tagliente penetrano senza difficoltà la folta pelliccia e la pelle dell’animale, e si fanno strada tra muscoli, grasso, vene, legamenti, distruggendo, implacabili, tutto quello che trovano sino a frantumare, tranciare gli organi vitali. L’orso è scosso da un dolore acuto e lancinante: il dolore della vita che lascia il posto alla morte. Il grande orso cade, come un albero morto a terra, in una pozza di sangue. Il predatore più forte della foresta è stato ucciso dal più potente predatore del pianeta: l’uomo. I compagni ricompongono i resti del giovane e imprudente cacciatore; lo avvolgono nella pelle dell’ orso appena scuoiato, convinti che la forza dell’animale si trasferirà al cacciatore per le cacce che affronterà nell’altra dimensione.
Mestamente, il piccolo gruppo si avvia verso il villaggio che sorge sulle sponde del grande fiume; lo raggiungeranno alla fine del giorno dopo. Al loro arrivo iniziano subito i preparativi per il rito funebre: la morte del giovane, per la gente del villaggio , è un triste evento, ma fa parte della vita, è la partenza per una nuova esistenza, un’altra storia da vivere diversamente. Viene preparata la pira con legna profumata e resinosa; lo sciamano invoca il mondo degli spiriti facendo offerte e chiedendo di accogliere il nuovo spirito. I miseri resti vengono deposti sulla catasta di legna e viene appiccato il fuoco che, grazie alla resina, prende forza e vigore e, in poche ore completa il suo compito, profumando l’aria di olii delle piante utilizzate sapientemente. Le braci, ancora calde, vengono deposte in una piccola buca rettangolare, orientata est-ovest  come il percorso del sole, e i miseri resti vengono coperti da una ciotola della famiglia del giovane. Il padre vuole anche regalare, come ultimo amuleto, un pezzo del palco di cervo, tagliato con una sega di bronzo, perchè abbracci eternamente e protegga quanto resta del figlio  e gli doni, nell’altra vita, tutte le nobili capacità di un cervo.  
  ….. Parla la ciotola…….
   ” Fui ricoperta di terra dagli uomini, il luogo dove mi deposero divenne un posto sacro, una necropoli, una città dei morti. Quel lembo di terra, per molte generazioni, fu rispettato e onorato, poi, in maniera impercettibile ma inesorabile, venne sempre più dimenticato. Anche il fiume, con le sue esondazioni stagionali, mi ricoprì  strato su strato e la vegetazione si impadronì di tutto, nascondendomi per moltissimo tempo. Ho sentito uomini, culture, civiltà passarmi sopra; qualche volta, come durante la colonizzazione romana, sono stata sfiorata dai lavori degli agrimensori che centuriavano il territorio. Sempre più la polvere del tempo mi coprì, e sempre più attutiti mi arrivavano i suoni dei nuovi eventi che, via via, si susseguivano sulla superficie.
   Un giorno, alcuni strani rumori mi crearono molta apprensione. Già rotta, fratturata dal peso degli strati di terreno che mi coprivano, temevo che i miei frammenti venissero dispersi e la mia memoria si perdesse nell’oblio. Rumori inconsueti, ritmici e metallici si addensavano sopra di me ; sentii la pressione della terra, che mi inglobava, farsi ferocemente intensa, sino a quando la terra, dalla profondità del campo venne portata in superficie con un unico, lento, continuo movimento. Alcuni frammenti di manufatti, depositati vicino a me, all’improvviso furono esposti all’aria e alla luce, dopo più di 3.000 anni.
   Quel luogo dove sorgevano antiche e rigogliose foreste, oggi è un campo coltivato con delle case intorno. Al posto del placido fiume ci sono strade asfaltate, abitazioni, orti, giardini e coltivazioni. L’unica cosa rimasta quasi inalterata è che vicino al mio luogo di deposizione, in superficie c’è ancora un luogo sacro, un cimitero. Quei frammenti di vaso,
strappati dall’aratro dalle profondità del campo, furono consegnati, da alcuni uomini curiosi del loro passato, ad una giovane archeologa, Cecilia, specializzata nello studio della Preistoria e Protostoria. Quando vide la manifattura dei frammenti, la studiosa si rese conto che lì vicino potevano, forse, trovarsi i resti di antichi insediamenti umani.  Quei
piccoli e consunti frammenti di storia vennero affidati all’archeologo Luciano che, da oltre trent’anni,  studia i reperti del periodo del Bronzo in Veneto.
  Dopo attenti esami, Luciano contattò il personale del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo e venne organizzata una squadra per lo scavo archeologico. Una mattina di ottobre la squadra si incontrò a Campestrin di Grignano, vicino al sito da indagare. Gli archeologi si posizionarono quasi sopra di me e, guidando un mostro gigantesco e giallo, cominciarono, meticolosamente, a togliere strati di terra dal campo di mais, fino a quando percepirono le tracce di antiche presenze umane. Subito si calarono nella grande trincea e si misero a scavare, scoprendo, millimetro dopo millimetro, testimonianze materiali talmente antiche da essere state ormai dimenticate: ogni strato che veniva tolto era un balzo nel passato che, in un attimo, si faceva prodigiosamente vivo e presente. Il cielo di Grignano rivedeva, dopo migliaia di anni, frammenti di quotidianità strappati al tempo dall’uomo. Erano proprio solo frammenti, insufficienti perché gli uomini potessero capire di cosa si trattava.
Sentii ancora possenti rumori metallici, nuovamente lo scavatore sconvolgeva la campagna. Questa volta, il sondaggio lo fecero lontano da me, non ero preoccupata. Trovarono solo sabbie, la testimonianza del vecchio fiume che, per lunghissimo tempo, trasportò argille, torbe, limi e proprio quelle sabbie che, più pesanti, lo soffocarono e lo riempirono, costringendolo a trovare un nuovo corso.
   I rumori, poi, si avvicinarono a me in maniera preoccupante. Udii le voci di Mauro e Gianfranco dire: ” Apriamo qui”. La possente benna d’acciaio addentò la terra in superficie e, ad ogni colpo, portava via della terra, quella terra che mi aveva protetto e che, insieme all’arte dell’uomo e alla magia del fuoco mi aveva creato. Alla terza gigantesca cucchiaiata sentii un dolore, ma il palco di cervo che mi aveva abbracciata per secoli mi protesse dalla lama d’acciaio. Sentii gli archeologi gridare all’unisono a Paolo sullo scavatore: ” Fermati”. Michele e Gianfranco si precipitarono nella trincea. Avrei voluto arrossire: mi scoprirono lentamente, tolsero la terra, che ancora mi copriva, con attenzione, con dolcezza; recuperarono quei frammenti di stanga di cervo che mi avevano, ancora una volta, protetto. Mi fotografarono, Letizia e Fabiola raccolsero ogni mio più piccolo frammento, anche il più minuto; raccolsero anche i carboni e le ossa che avevo fino ad allora custodito. Mi lavarono come un bambino appena nato: sono rinata.
Un’altra vita mi aspetta, grazie alle attenzioni del restauratore che rimetterà insieme i frammenti fino a che la mia forma originale, quella fatta con l’argilla del fiume e plasmata dalla madre dello sfortunato cacciatore, verrà guardata, osservata, studiata forse, e magari deposta in una vetrina al Museo. Spero di non finire al buio dentro uno scatolone, in un magazzino! Voglio farmi ammirare da tutti: io sono un frammento della storia, della vostra storia! Ma, a proposito di storia, chissà se questa è proprio la mia vera storia ? Ciao, ci vediamo al Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo”. 
Per la realizzazione di questo volumetto e della storia verosimile che contiene ringraziamo: Mauro Cesaretto, Museo dei Grandi Fiumi, Rovigo, per i testi e i disegni; Gianfranco Vigato, Museo dei G. F. per le foto, impaginazione e grafica. Elena Masiero, Museo G.F. per la redazione. Le  dirigenti scolastiche IIS ‘E. De Amicis’, Rovigo, proff. Giuseppina Papa ed Elena Papa. Inoltre, Istituto Professionale Statale ‘Marco Polo’, Rovigo, classe 4 D, revisione delle classi 5 Ag e 5 Bg dell’indirizzo ‘Grafica e Comunicazione IIS ‘De Amicis’, di Rovigo, docenti: Alessandro Spiandorello e Alfredo Pierro.
Finito di stampare nell’anno 2016, a Rovigo.
Lauretta Vignaga